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Se l'acquirente può chiedere la restituzione del doppio della caparra quando si limiti ad agire in giudizio per la risoluzione contrattuale
Preliminare di vendita: caparra confirmatoria, risoluzione di diritto e recesso
Cassazione , sez. II civile, sentenza 02.12.2005 n° 26232


In tema di contratto preliminare di vendita, il promittente acquirente che abbia versato la caparra confirmatoria, dopo aver chiesto che si accerti l’intervenuta risoluzione di diritto del contratto, non può chiedere che la controparte venga condannata a corrispondergli un importo pari al doppio della caparra, perché ciò presupporrebbe il contestuale esercizio del diritto di recesso da un contratto ancora esistente tra le parti.
In tal senso si è pronunciata la Corte di Cassazione con la sentenza n° 26232 del 2 dicembre 2005, mutando orientamento rispetto alla precedente decisione (vedi Cass., sez. III civile, 10.02.2003, n° 1952).
La Suprema Corte, nel precedente orientamento, ha osservato che nell'ipotesi di versamento di una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, la parte adempiente che abbia agito per la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno, in secondo grado, in sostituzione di dette pretese, può chiedere il recesso dal contratto e la ritenzione della caparra (art. 1385, secondo comma, c.c.), in quanto dette domande hanno minore ampiezza rispetto a quelle originariamente proposte, ed inoltre esse possono essere proposte anche nel caso in cui si sia già verificata la risoluzione del contratto per una delle cause previste dalla legge (artt. 1454, 1455 e 1457 c.c), dato che rientra nell'autonomia privata la facoltà di rinunciare agli effetti della risoluzione del contratto per inadempimento.
(Altalex, 1 febbraio 2006. Nota di  HYPERLINK "http://www.altalex.com/?idstr=85&idu=32183" Marco Pregno)

Cassazione, sez. II civile, sentenza 02.12.2005 n° 26232
La Corte suprema di Cassazione
Sezione Seconda civile
Sentenza n° 26232/05

Svolgimento del processo
Con atto di citazione ritualmente notificato il 05.05.1986 Vittorino C. convenne in giudizio davanti al Tribunale di Firenze Maria S. perché fosse dichiarata la risoluzione per inadempimento a lei addebitabile, del contratto preliminare dagli stessi stipulato il 18.12.1985, con condanna della convenuta al risarcimento dei danni quantificati in L. 40.000.000, oltre interessi.
Assumeva l’attore che l’inadempimento si riferiva alla clausola concordemente aggiunta in data 27.01.1986, con la quale veniva stabilito di rinviare al 28.02.1986 sia la data di immissione nel possesso dell’immobile in favore di Vittorio C., promissario acquirente; sia il termine per l’adempimento da parte della Simon dell’obbligazione assunta, quale promittente venditrice, di effettuare i lavori di risanamento dell’appartamento per i danni verificatisi nel dicembre del 1985 a causa della rottura delle condutture di scarico dell’appartamento sito al piano sovrastante; obbligazione in ordine alla quale la convenuta si era resa inadempiente nonostante la diffida ad adempiere notificatale il 06.03.1986.
Costituitasi, la convenuta contestava l’inadempimento addebitatole eccependo che inadempiente doveva considerarsi l’attore che insisteva nel pretendere l’esecuzione di opere diverse ed estranee all’impegno assunto.
Espletata C.T.U. ed assunte prove testimoniali, il Tribunale, con sentenza 13.08.1999 dichiarava risolto il contratto preliminare per inadempimento della convenuta che veniva condannata al pagamento del doppio della caparra a suo tempo ricevuta, e cioè a L. 40.000.000, oltre interessi legali.
Su impugnazione della Maria S., la Corte di Appello di Firenze, con sentenza 11.06.2001 respingeva l’impugnazione. Afferma la Corte che la promittente venditrice, a seguito della diffida, avrebbe dovuto comunque a quanto pattuito con la clausola aggiuntiva, cioè ad eseguire le opere di risanamento, per eliminare i danni riportati dall’immobile a seguito delle infiltrazioni dal piano superiore; ed ad immettere l’attore nel possesso dell’immobile; dovendo il pagamento della seconda rata di prezzo essere effettuata con la presa in consegna dell’immobile.
La Maria S., viceversa, è rimasta, per la Corte, inadempiente, adducendo che il Vittorio C. pretendeva da lei l’esecuzione di opere diverse da quelle necessarie per l’eliminazione dei danni da infiltrazioni, pretesa non risultante dalla diffida ed il cui accertamento è irrilevante a fronte della inattività della Maria S.
Afferma, inoltre, la Corte, al legittima applicazione dell’art. 1385 II° co. c.c. fatta dal Tribunale, nel condannare la Maria S. al pagamento del doppio della caparra ricevuta, trattandosi del legittimo esercizio di un perdurante diritto di recesso rispetto alla domanda originaria di risoluzione del contratto.
Avverso tale sentenza ricorre in Cassazione la Maria S.
Resiste con controricorso Vittorio C.
La Maria S. ha depositato memoria

Motivi della decisione
Deduce la ricorrente a motivi di impugnazione.
1) La violazione degli artt. 1362, 1363, 1324, 1360 c.c., vizio di motivazione ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. per avere la Corte di Appello nell’affermare che la diffida 13.03.1986 inviata alla Maria S. si riferiva solo all’esecuzione di quei lavori previsti nella clausola aggiuntiva, di risanamento del quartiere per i danni provocati dalle infiltrazioni di acque luride dal piano sovrastante; e che da tale diffida non si evinceva la pretesa del Vittorio C. di eseguire opere esorbitanti dall’obbligo assunto, erroneamente, a favore di una clausola formulata in termini generici, senza alcuna specificazione dei lavori necessari e sufficienti allo scopo di risanare il quartiere da quei danni, proceduto ad una interpretazione pedissequamente letterale e parziale della diffida, non tenendo conto delle premesse costituenti parte integrante della stessa dalle quali si evinceva, secondo le conclusioni del C.T. di parte, che le infiltrazioni avevano gravemente danneggiato parte dei solai in legno (in particolare dell’ex cucina), danno escluso poi dal C.T.U., omettendo ogni indagine sulla comune intenzione delle parti ed ogni valutazione del comportamento delle stesse, anche posteriore alla conclusione del contratto; trascurando di interpretare le clausole contrattuali le une per mezzo delle altre.

2) La violazione o falsa applicazione dell’art. 1460 c.c. e 184 c.p.c. il vizio di motivazione ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., per aver la Corte di Appello, nonostante l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. sollevata dalla Maria S. nel 1° grado di giudizio oggetto di specifico motivo di impugnazione di appello, erroneamente omesso di procedere ad una valutazione comparativa del comportamento inadempiente delle parti, non accertando, da un lato, se i lavori di ripristino pretesi dal Vittorino C. fossero eccedenti le necessità di risanamento cui la Maria S. era tenuta e se tale pretese giustificasse il timore della Maria S. che il Vittorio C. si sarebbe astenuto dal pagamento: a) a negare che il Vittorio C. avesse avanzato pretese eccessive (sulla base di una interpretazione scorretta dalla diffida; b) a negare rilievo a tali ulteriori pretese e conseguentemente a ritenere inammissibile la prova sul punto; c) a ritenere, quindi, sufficiente, a respingere l’eccezione di inadempimento, la sola valutazione dell’inadempimento della Maria S.

3) La violazione o falsa applicazione dell’art. 1455 c.c., nonché il vizio di motivazione ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. per aver la Corte di Appello erroneamente omesso ogni valutazione della gravità dell’inadempimento addebitato alla Maria S., nonostante tale valutazione fosse necessaria per il c...

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