L'attività del mediatore e il diritto alle provvigioni (la necessità di un rapporto causale tra l'affare concluso e l'attività dell'agenzia).-
Attività del mediatore e nascita del diritto alla provvigione
Commento alla sent. Cass. civ. Sez. III, 15 aprile 2008, n. 9884
I. Il caso
A.G. cita I.P. e A.D.R. a comparire innanzi al Tribunale per sentirli condannare al pagamento in suo favore di una somma di danaro a titolo di provvigione per attività di mediazione svolta in relazione ad una compravendita immobiliare stipulata tra i convenuti. Il Tribunale, atteso che A.G. non era iscritto all’albo dei mediatori e dunque non aveva diritto alla provvigione, respinge la domanda.
Contro la decisione del Tribunale propone appello A.G. sulla scorta del fatto che – benché la necessità dell’iscrizione nell’albo professionale sia prevista perché sorga il diritto alla provvigione e costituisca un’innovazione introdotta dall’art. 6 della l. n. 39/1989 finalizzata a porre in risalto la natura professionale dell’attività del mediatore – dalla mancata iscrizione non deriverebbe la nullità di tale contratto (ammesso che di rapporto di natura contrattuale si tratti), poiché la violazione di una norma imperativa, ancorché sanzionata penalmente, non dà luogo necessariamente alla nullità del negozio, atteso che l’art. 1418 cod. civ., con l’inciso "salvo che la legge disponga diversamente", impone all’interprete di accertare se, anche in caso di inosservanza del precetto, il legislatore abbia previsto la validità del negozio medesimo, predisponendo un meccanismo idoneo a realizzare gli effetti voluti dalla norma; il rapporto de quo, pertanto, in assenza di iscrizione all’albo, non è viziato da nullità, comportando tale violazione esclusivamente la non insorgenza del diritto alla provvigione e l’applicazione della sanzione amministrativa ovvero, in caso di recidiva, l’applicazione della pena prevista per l’esercizio abusivo della professione (Cass., 27.6.2002, n. 9380, in Mass. Foro it., 2002).
L’appello viene respinto mancando la prova che la vendita immobiliare fosse stata effettivamente conclusa per effetto di un intervento del medesimo A.G. qualificabile come attività di mediazione. Su tale aspetto – il ruolo causale dell’attività del mediatore nella conclusione dell’affare – è chiamata a pronunciarsi la Corte di Cassazione.
II. La questione
Come noto, il codice civile non definisce il contratto di mediazione, bensì soltanto la figura del mediatore. Tale scelta linguistica, unica nel Titolo III del Libro IV, ha determinato un ampio dibattito dottrinale circa la natura del rapporto in argomento.
Se infatti la giurisprudenza più recente omette (come nel caso di specie) di qualificare espressamente la mediazione, la dottrina più accreditata – senza con ciò voler dimenticare autorevoli impostazioni minoritarie – ha elaborato due principali teorie. Argomentando dalla collocazione sistematica dell’istituto nel corpo del Codice, nonché dalla disciplina del rimborso delle spese sostenute dal mediatore di cui all’art. 1756 cod. civ., alcuni aa. ritengono che la mediazione abbia natura contrattuale e nasca nel momento della formazione dell’accordo tra i contraenti intermediati.
Secondo questa impostazione, dunque, il principale argomento che milita in favore della natura contrattuale della mediazione è rappresentato dalla disciplina codicistica delle spese. Laddove infatti il legislatore utilizza il termine "incarico", con ciò avrebbe inteso fare riferimento ad un generico incarico di svolgere opera di mediazione, dandone dunque per presupposta la natura contrattuale. Invero, tale ricostruzione appare nettamente in contrasto con il tenore letterale dell’art. 1756 cod. civ., il quale si limita a condizionare il diritto al rimborso delle spese sostenute dal mediatore all’esistenza di una autorizzazione ad eseguirle.
Poiché d’altronde la stessa Relazione al Re del Ministro Guardasigilli sul Codice civile ha riconosciuto (n. 725) natura meramente eventuale all’accordo in parola, dovrebbe conseguirne che, laddove si volesse ritenere tale incarico come contratto di mediazione, detto contratto non sarebbe stato ritenuto dal legislatore un dato costante ed ineliminabile della fattispecie in esame. In ogni caso, se si propende per la natura contrattuale, pare più corretta – tra le varie teorie di qualificazione della fattispecie negoziale (a seconda dei casi, fattispecie unilaterale, plurilaterale ovvero plurisoggettiva bilaterale) – la qualificazione come contratto unilaterale con obbligazioni a carico di un solo contraente, ex art. 1333 cod. civ.: l’obbligazione di rimborsare le spese, se l’affare non si conclude; l’obbligazione di corrispondere la provvigione, se l’affare si conclude.
Altra parte della dottrina ritiene invece – argomentando peraltro in tal senso sulla scorta della possibilità per le parti di recedere ad nutum in ogni caso, pur in assenza di una giusta causa e senza alcuna responsabilità e senza che alcunché sia dovuto ad alcun titolo, fino al momento della conclusione del contratto – che la mediazione abbia natura non contrattuale, sorgendo il rapporto in parola ogni qual volta vi sia un’attività oggettivamente idonea a mettere in relazione le parti interessate ad un affare e strumentale alla conclusione dello stesso.
Secondo tale ricostruzione, la mediazione sarebbe un atto giuridico in senso stretto, che si identifica con la messa in relazione delle parti e che è fonte di obbligazioni simultanee a carico delle stesse ai sensi dell’art. 1173 cod. civ. Merita di essere ricordata, infine, anche la teoria che vede nella mediazione (quanto meno nell’ipotesi in cui nessuna delle parti abbia conferito alcun incarico al mediatore) un rapporto contrattuale di fatto.
Secondo tale ricostruzione, il diritto alla provvigione deriverebbe, anziché da un contratto, dal fatto obiettivo dell’intervento del mediatore nella conclusione dell’affare, fatto generatore di obbligazione ai sensi dell’art. 1173 cod. civ. Elementi costitutivi della mediazione sarebbero, in questa prospettiva, la presenza di un intermediario che adempia all’onere (si badi bene, non all’obbligo) di compiere l’attività necessaria per mettere le parti in condizione di concludere da se stesse il contratto che le riguarda, nonché l’utilizzazione consapevole, compiuta da dette parti, dei risultati dell’opera del mediatore, in assenza di una preventiva ed espressa dichiarazione al mediatore di una volontà contraria alla conclusione del contratto di mediazione.
In presenza di tali elementi la legge ricollegherebbe dunque alla fattispecie concreta gli stessi effetti che deriverebbero da un valido accordo del mediatore con ciascuna delle parti, derogando ai fini della conclusione del contratto dallo schema proposta/accettazione, e realizzando dunque un rapporto contrattuale di fatto. Tale ultima impostazione, però, non convince appieno, perché consentirebbe astrattamente a chiunque di pretendere la provvigione adducendo il solo fatto obiettivo di essersi interposto – pur in assenza di uno specifico incarico delle parti – nella conclusione di un affare.
Utile per indagare la natura della mediazione, può risultare infine chiarificatore un confronto tra essa e la similare (non tanto giuridicamente quanto dal punto di vista degli scambi commerciali) fattispecie del mandato irrevocabile ed esclusivo a promuovere la vendita, la cui natura contrattuale è pacifica. Quest’ultimo, come noto, si distingue dalla mediazione giacché il mandatario si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto del mandante, ed acquista il diritto al compenso indipendentemente dal risultato raggiunto, laddove invece il mediatore, in capo al quale non sorge il predetto obbligo, ma esclusivamente l’onere di mettere in relazione i contraenti, avrà diritto al compenso soltanto in caso di effettiva conclusione dell’affare.
A ciò peraltro deve aggiungersi l’ontologica differenza tra l’attività del mandatario e quella del mediatore, consistendo la prima nel compimento di atti giuridici, e la seconda in un’attività di carattere professionale tendente a mettere in contatto due soggetti per la conclusione di un contratto. Oltre a tali macroscopiche differenze, le prime, di carattere causale, dovute essenzialmente all’esistenza di un sinallagma nel mandato – sinallagma che invece è incompatibile con la natura della mediazione – le seconde derivanti invece dalla tipizzazione codicistica, non devono sfuggire le conseguenze che discendono da eventuali clausole di esclusività ed irrevocabilità, che rappresentano tipici indici del configurarsi di un’ipotesi di mandato conferito anche nell’interesse del mandatario ex art. 1723 cod. civ. Se esse, ad una prima analisi, appaiono sfumare sensibilmente la distinzione tra mandato e mediazione, poiché tengono salvo il mandatario dalle conseguenze di una eventuale dichiarazione di revoca (ovvero della nomina di un ulteriore mandatario), così come l’art. 1755 cod. civ., nell’interpretazione datane dalla giurisprudenza del S.C., tutela il mediatore da una eventuale protestatio contra factum proprium di uno o di entrambi gli intermediati, ad un più attento esame confermano la chiara distinzione tra le due fattispecie e dunque, indirettamente, la differente natura delle stesse. Non solo a favore di tale ricostruzione milita la necessità dell’espressa previsione normativa di cui al citato art. 1723, comma 2°, cod. civ., laddove l’inefficacia della protestatio discende dai principi generali dell’ordinamento giuridico, come correttamente evidenziato dalla dottrina che si è occupata dei rapporti contrattuali di fatto; la disposizione da ultimo citata infatti, laddove prevede che "il mandato conferito anche nell’interesse del mandatario ... non si estingue per revoca da parte del mandante, salvo che ... ricorra una giusta causa di revoca", presuppone, anche nel caso in esame, l’esistenza di un rapporto sinallagmatico tra la prestazione del mandante e quella del mandatario, rapporto che invece non è dato rinvenire nella fattispecie della mediazione.
Le maggiori aporie si riscontrano, peraltro, sul versante degli effetti del contratto di mediazione. Tra questi, infatti, non possono essere annoverati né quelli espressamente stabiliti dalle norme sulla mediazione, né diversi effetti altrimenti caratterizzanti. Quanto ai primi, essi sono ricondotti dalla legge o al fatto della messa in relazione delle parti ad opera del mediatore, ovvero al fatto della conclusione dell’affare in virtù dell’intervento di questi, giammai all’intervenuta conclusione di un contratto. Quanto invece ai secondi, è significativo come i medesimi aa. che riconoscono natura contrattuale alla mediazione escludano decisamente il prodursi dell’effetto caratterizzante che ben potrebbe prodursi dal contratto, ovvero il sorgere in capo al mediatore dell’obbligo di mettere in relazione le parti al fine di concludere un affare, obbligo che – se inattuato – faccia sorgere in capo al mediatore stesso una responsabilità da inadempimento.
Ritenendo dunque la natura contrattuale della mediazione, si configurerebbe una fattispecie contrattuale da cui non discende alcun obbligo specifico in capo al mediatore, bensì solo l’obbligo dell’intermediato di corrispondere la provvigione; poiché d’altronde tale ultimo obbligo già discende dalla messa in relazione delle parti ovvero dalla conclusione dell’affare, un siffatto negozio evidentemente appare essere nullo, per assenza di causa. Appare dunque più corretta una ricostruzione della mediazione quale fattispecie a formazione progressiva, in cui a determinati atti giuridici l’ordinamento ricollega precise conseguenze; fattispecie cui d’altronde ben può accedere un contratto per regolare i rapporti tra le parti in maniera differente rispetto a quanto previsto dal Codice. Così, la qualifica stessa di mediatore, e gli obblighi sul medesimo incombenti ex art. 1759 cod. civ., discendono dalla mera messa in relazione delle parti; il diritto alla provvigione sorge esclusivamente se l’affare è concluso per effetto dell’intervento del mediatore (mentre per l’autonomia privata, tanto in presenza quanto in assenza di tariffe professionali o usi, è possibile determinarne la misura e la proporzione in cui essa debba gravare su ciascuna delle parti); il rimborso delle spese sarà invece possibile solo allorquando al rapporto di mediazione acceda un contratto che autorizzi il mediatore stesso a compierle.
Con la pronuncia in commento, la Cassazione conferma dunque il proprio consolidato orientamento in tema di mediazione. Ribadisce infatti la Supr. Corte che il diritto del mediatore alla provvigione sorge tutte le volte in cui la conclusione dell’affare sia in rapporto causale con l’attività intermediatrice, pur non richiedendosi che, tra l’attività del mediatore e la conclusione dell’affare medesimo, sussista un nesso eziologico diretto ed esclusivo, ed essendo, viceversa, sufficiente che, anche in presenza di un processo di formazione della volontà delle parti complesso ed articolato nel tempo, la "messa in relazione" delle stesse costituisca l’antecedente indispensabile per pervenire, attraverso fasi e vicende successive, alla conclusione del contratto. Sicché, la prestazione del mediatore ben può esaurirsi nel ritrovamento e nell’indicazione di uno dei contraenti, indipendentemente dal suo intervenire nelle varie fasi delle trattative sino alla stipula del negozio, sempre che la prestazione stessa possa legittimamente riteners...
... continua